6cafaa0d27fceceab80df2bf551f7339La notizia, riportata da Askanews, è di quelle che non ti aspetti, specialmente da un Paese come la Francia. Per il Tribunale del Lavoro di Parigi il termine “checca” rivolto a un parrucchiere o a un dipendente di un negozio di parrucchieri non è omofobo perché “è riconosciuto che i saloni assumono regolarmente persone omosessuali”. Intervenendo su RTL, la ministra del Lavoro francese Myriam El Khomri ha definito “scandalosa” la sentenza del Tribunale. Il caso su cui ha emesso la sentenza il Tribunale di Parigi ha avuto inizio nel 2014 a causa di un sms ricevuto da un giovane dipendente in prova presso un salone di Parigi nel suo giorno di malattia. Il capo del giovane gli ha inviato un messaggio per sbaglio. Il testo recitava: “Non ho intenzione di tenerlo glielo dico domani (…) Non fa per me: è una checca, sono tutti negati”. Nel testo la responsabile del salone usa il termine francese “PD” per indicare le tendenze sessuali dell’impiegato. L’indomani il dipendente si è presentato a lavoro ed è stato licenziato. Valutando di essere stato vittima di discriminazione per il suo orientamento sessuale e sostenendo di essere rimasto scosso anche psicologicamente, ha fatto causa al datore di lavoro.

La proprietaria del salone ha, dal canto suo, sottolineato che l’impiegato “lavorava lentamente”, aveva “difficoltà di integrazione” e si “rifiutava di eseguire alcuni compiti”. Pur riconoscendo “il carattere e il tenore inappropriati del sms”, il datore di lavoro ha sottolineato che il termine “checca” (PD) “è soltanto un termine improprio, che è entrato nel linguaggio di tutti i giorni e non ha un senso peggiorativo o omofobo nello spirito della manager”. Nella sua sentenza il Tribunale del lavoro ha ripreso lo spirito della difesa e ha aggiunto che “nel contesto di un negozio di coiffeur, il Consiglio considera che il termine ‘checca’ impiegato dalla manager non può essere considerato omofobo perché è di dominio pubblico che i saloni impiegano regolarmente personale omosessuali, spesso nelle parruccherie per signore, senza che questo crei problemi”. Il giovane dipendente ha presentato appello. 

Un caso, insomma, in cui all’omofobia del datore di lavoro si aggiunge anche quella, peggiore, della sentenza del giudice, che non solo impiega in maniera quasi “scientifica” un pregiudizio privo di fondamento come quello che i parrucchieri sarebbero principalmente omosessuali, ma asserisce anche, implicitamente, che il termine utilizzato verso persone eterosessuali sarebbe un insulto. Come a dire: se si è in mezzo “ai gay”, ci si può anche permettere di insultarli”. Detto da un giudice, lascia molto perplessi.

La redazione

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Fonte: ANDDOS